Lo sciopero – Perché rimane una delle poche armi temute dai padroni e perché la burocrazia sindacale non lo usa più

Da Collettivo Femminista Rivoluzionario

Till humanise is equalize | Put down the tools | Every face on every side | Throw down the tools | Stay at home | Don’t check with Rome | Paint strike on the door | We don’t need no gangboss | We have to equalize! 

(Finché umanizzare significa equità | Molla gli attrezzi | Ciascun aspetto da ogni punto di vista | Getta gli attrezzi | Resta a casa | Non venire a patti con Roma | Scrivi sciopero sulla porta | Non vogliamo alcun caposquadra | Puntiamo all’equità!) (da The Equaliser THE CLASH)

“Tutte le ruote si fermeranno se la tua forte mano lo vorrà” (Canzone degli operai tedeschi)

 “Siamo già al 18 del mese e abbiamo fame!”, questo era lo slogan con cui incrociarono le braccia gli operai addetti alla costruzione del tempio di Tebe, in Egitto, sotto Ramses III, ovvero 1150 avanti Cristo, anno più anno meno. Quella volta, probabilmente anche grazie all’assenza dei sindacati concertativi, i lavoratori ebbero ciò che spettava loro, ossia grano, pesce e legumi.

Quando, alla fine del XV secolo, i contadini inglesi espropriati in massa non riuscirono a riciclarsi come operai nella nascente industria manifatturiera subiscono la terribile persecuzione del capitale, con “una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio” (Marx, Il Capitale, libro I, par. 24, punto 3). La forza lavoro era necessaria all’interno delle fabbriche, e nessun altro stile di vita, autonomo e fuori dalla logica di sfruttamento della società era contemplato, men che meno vivere di espedienti.

L’improduttività, così come l’interruzione della produzione, è da sempre ciò che spaventa il capitale. Da quando l’uomo ha conosciuto la schiavitù del lavoro, scioperare, ossia sottrarvisi, è stata la strategia di lotta più usata per far valere l’unica leva di negoziazione a disposizione della forza lavoro.

Nella lunga guerra tra le classi, le donne non hanno mai avuto paura di utilizzare l’arma dello sciopero per reclamare i propri diritti. Nel 1788, in anticipo sui Luddisti, le donne di Leicester crearono una società segreta per sabotare le macchine.

L’otto marzo 1857 le lavoratrici di una fabbrica tessile di New York si fermarono per protestare contro le 12 ore di lavoro quotidiano e i salari da fame, e vennero represse brutalmente dalla polizia.

Tralasciando le fiammiferaie e le ovalistes, in Italia, nel maggio 1896, nella piana di Firenze scesero in sciopero le trecciaiole, operaie addette alla lavorazione della paglia, cercando di bloccare il settore anche con azioni violente. Erano giovani e prevalentemente di estrazione contadina e protestavano contro un salario che era precipitato in pochi anni a un livello tale da non essere più sufficiente neppure per mezzo chilo di pane. Continua a leggere

La catena continua di scioperi delle lavoratrici e dei lavoratori delle cooperative

Da: Collettivo Femminista Rivoluzionario

Finalmente è emerso il grave problema dello sfruttamento dei milioni di lavoratori e lavoratrici dipendenti di cooperative e aziende di servizio e il marciume degli appalti pubblici al ribasso. Per la prima volta ci troviamo di fronte ad una catena continua di scioperi del settore terziario ed in particolare delle donne delle pulizie che prestano servizio negli ospedali le cui condizioni di lavoro e i bassi salari hanno raggiunto livelli molto vicini alla schiavitù garantendo, nel totale silenzio sindacale di decenni, enormi profitti alle cooperative e alle aziende appaltatrici. Il coperchio della pentola nel terziario è saltato quando i lavoratori e le lavoratrici della COPURA, cooperativa di servizi del faentino, hanno incrociato le braccia nel passaggio di gestione. Quei lavoratori, assunti il 25 gennaio si son visti dimezzare lo stipendio e i contributi, ridurre le ore contrattuali da 40 a 28. Tuttavia, il carico di lavoro da svolgere in quasi metà tempo è aumentato, creando ritardi nelle consegne. Attualmente sono rimasti 17 lavoratori, perché 3 si sono licenziati in quanto lo stipendio non garantiva loro la sopravvivenza (ulteriori informazioni qui).

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Una commedia già vista: subentra una nuova gestione e…

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di Marla Taz

Si tratti di aziende o di cooperative il teatrino non cambia: quando un’azienda cambia gestione o una cooperativa subentra ad un’altra tramite appalto al ribasso, il costo del minor prezzo viene pagato dai lavoratori. È il caso dei 21 lavoratori ex PLURIMA S.P.A., azienda che si occupava dei trasporti materiali ospedalieri e il cui appalto è stato vinto dalla COPURA di Faenza. Nel passaggio di gestione i lavoratori assunti il 25 gennaio si son visti dimezzare lo stipendio e i contributi, ridurre le ore contrattuali da 40 a 28, il carico di lavoro da svolgere in quasi metà tempo è aumentato creando ritardi nelle consegne, sono rimasti 17 lavoratori perché 3 si sono licenziati in quanto lo stipendio non garantiva la sopravvivenza.  “Non si placano le lamentele e le discussioni sui ritardi nelle consegne del sangue, anche da parte di Responsabili Copura Soc. Coop. nei confronti dei lavoratori impiegati”: queste le parole del sindacato che ancora non ha trovato un accordo con COPURA e ci auguriamo questa volta a favore dei lavoratori e non del padrone. Intanto i dipendenti minacciano sciopero ad oltranza davanti alla sede dell’ASL ROMAGNA, respingono ogni accusa attribuita a loro carico per i ritardi denunciando che, a fronte della riduzione di orario e del necessario e obbligatorio rispetto del codice stradale, vi è stato uno spropositato aumento della burocrazia da parte della soc. coop. entrante.

Basta appalti al ribasso! Anche i servizi di trasporti materiali ospedalieri devono essere pubblici, così come i dipendenti.

Basta finanziamenti diretti e sgravi fiscali alle cooperative che sono a tutti gli effetti aziende private come tutte le altre. Il denaro pubblico deve rimanere nel pubblico!

Basta con il lavoro subordinato dei lavoratori delle cooperative! Vogliamo l’abolizione della legge 142 del 3 aprile 2001 che regala  di fatto la possibilità ai soci amministratori di sfruttare i soci lavoratori!

#pcl #faenza #copura #cooperative

Paladini della carità? No grazie

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di Frecciarossa

Apprendo sempre con dispiacere ma senza stupore, dato che ormai è una prassi consolidata, dell’ultima vergogna politica dei sindacati, se si possono ancora chiamare sindacati degli enti che da anni stanno distruggendo il mondo del lavoro senza mettere in campo lotte degne di questo nome e stanno accettando passivamente tutte le politiche antioperaie messe in campo dai vari governi di centrodestra e di centrosinistra (come il Jobs Act).

Mi riferisco ai tanti licenziamenti a cui nel corso degli ultimi anni CGIL CISL e UIL hanno messo allegramente la firma, sia che siano stati licenziamenti collettivi per chiusure e delocalizzazioni, sia che siano stati licenziamenti più “soft”, tramite buonuscita o incentivi. La costante è sempre la mancata tutela della classe a cui dovrebbero fare riferimento, quella dei lavoratori, a favore di un servilismo e di una connivenza sempre più marcati con la classe padronale.

Non contenti, CGIL CISL e UIL prendono ora nuovamente in giro i lavoratori. Infatti, in questi giorni, il Comune di Forlì ha varato il bilancio, confermando i finanziamenti per il welfare e per il fondo anticrisi, con l’appoggio di CGIL CISL e UIL. Verrebbe da chiedersi cosa c’è di strano, sembra un’iniziativa condivisibile.

Ma ogni lavoratore con un minimo di coscienza di classe capirebbe il giochino e si chiederebbe: “ma come, prima fate in modo che mi licenzino e poi approvate l’erogazione di soldi pubblici a chi come me rimane a casa?” Forse era meglio non svendere a monte il diritto al lavoro per quattro spicci di buonuscita, forse era il caso di mettere in campo un programma di lotte dure nelle vertenze aperte sul territorio e forse, udite udite, era il caso pure di coordinarle queste vertenze, con una piattaforma di lotta dura e decisa, come duro e deciso è l’attacco padronale ai lavoratori.

Care CGIL-CISL-UIL, la maschera l’avete gettata da tempo. Non siete più credibili, abbiate l’onestà di riconoscere che il vostro mestiere è da un lato dare schiaffi ai lavoratori, dall’altro convincerli che se li meritano.

Un disoccupato svenduto dal sindacato

#cgil #sindacato #pcl #lottadiclasse

Lettera di un’operaia di Melfi ad un mese dalla sperimentazione dei nuovi turni di lavoro

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[Da Sialcobas]

“Da qualche settimana è iniziata la sperimentazione dei nuovi turni alla FCA di Melfi ed è già possibile descrivere una situazione tutt’altro che felice per noi donne”.

Riportiamo la lettera di un’operaia dello stabilimento FCA/Fiat di Melfi. Si tratta della SATA (Società Automobilistica Tecnologie Avanzate), la “fabbrica dei record”, una tra le piu’ produttive al mondo. Quest’operaia spiega cosa significa produttivita’: sfruttamento sistematico di tutto quello che c’e’ di vivo in chi lavora.

“Si lavora sei mattine, dalle 6 alle 14, da lunedì a sabato; poi si riattacca domenica sera alle 22, per quattro notti di seguito; poi due giorni di riposo, tre pomeriggi di lavoro (compresa una domenica), due giorni di riposo, tre notti di lavoro, due riposi e altri quattro pomeriggi di lavoro. Finalmente una domenica di sosta, ma lunedì alle 6 si ricomincia daccapo. È come vivere in un continuo cambio di fuso orario.

Già i primi dieci giorni ci hanno sfinite, le ore in fabbrica si trascorrono in piedi davanti a una catena sempre più veloce perché, grazie al “sistema migliorativo Ergo uas”, tutto il materiale ci arriva direttamente in postazione su carrellini trainati dai robot automatizzati che spesso perdono pezzi per strada o si fermano e non vogliono saperne di ripartire. Loro non sentono le minacce dei capi, decidono di non lavorare più e così è se vi pare.

Le operazioni sono tutte cronometrate e le postazioni saturate; in teoria dovremmo star ferme ad assemblare comodamente tutto ciò che ci arriva ma in realtà si cammina, anzi, si insegue la linea e ci si “imbarca”, ossia ci si allontana sempre di più dai confini della postazione disegnati sul pavimento. Basta un qualunque imprevisto, una vite sfilettata o un semplice starnuto, per rendere spasmodica la risalita. A volte ci paragoniamo ai salmoni e speriamo che non ci attenda la stessa sorte. Continua a leggere

Contratto dei metalmeccanici: la conclusione di una parabola della FIOM

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Ripartire dal dissenso per organizzare la resistenza

Con grande trionfalismo FIM, FIOM e UILM hanno dichiarato che l’ipotesi di accordo firmata il 26 novembre è stata approvata dai lavoratori e dalle lavoratrici del settore metalmeccanico con una percentuale dell’80%. Questo dato, che a una prima lettura sembra quasi un plebiscito nei confronti dell’accordo ed un successo dei sindacati firmatari, deve esser guardato con attenzione. L’approvazione dell’accordo, infatti, non è mai stata in discussione, come invece lo è stato in altre recenti consultazioni di questa stagione contrattuale (vedi, ad esempio, il rinnovo dell’igiene ambientale, bocciato secondo i dati ufficiali dal 43% delle aziende pubbliche del settore, nella realtà in quasi tutti i grandi stabilimenti – Genova, Roma, Milano, Bari, ecc. – ed in tantissimi di quelli piccoli, probabilmente dalla maggioranza di lavoratori e lavoratrici coinvolti.)

In primo luogo i metalmeccanici implicati dal contratto erano oltre un milione e mezzo. Non solo la classe operaia centrale, quella organizzata delle grandi e delle medie fabbriche, ma anche quella dispersa nel disperso tessuto produttivo italiano di piccole e piccolissime aziende. Non solo quella delle fabbriche più combattive, in cui sono influenti i delegati e le delegate della sinistra FIOM o (in qualche caso) dei sindacati di base, ma anche quella che segue le indicazioni della FIM, della UILM o che non è neppure sindacalizzata.
Certo, questo era un pessimo contratto. Non solo perché distribuisce pochi soldi in quattro anni (forse una cinquantina di euro, a fronte degli 80-100 degli altri contratti). Era molto di più. È un rinnovo che sfibra l’intero sistema contrattuale, indebolendo significativamente i rapporti di forza complessivi della classe lavoratrice: registra semplicemente l’inflazione reale (ex post), non prevedendo nessuna distribuzione della ricchezza o anche solo della produttività nel CCNL; indirizza pesantemente la contrattazione aziendale su parametri variabili (aumentando così la flessibilità salariale); introduce assicurazioni sociali e buoni carrello (tagliando il salario complessivo e contribuendo a smantellare il welfare universale); conferma le flessibilità organizzative previste nel CCNL 2012 (a partire dagli straordinari obbligatori).
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NO ALL’IPOTESI DI CCNL DEI METALMECCANICI

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Questo contratto dà pochi spiccioli ai lavoratori, moltissimo ai padroni e peggiora quello precedente che la FIOM si era rifiutata di firmare. Rimane tutta la parte normativa: orario di lavoro (flessibilità e straordinari obbligatori), gestione ferie e Par, restrizione della malattia e vengono introdotte norme peggiorative per la legge 104. Inoltre, i premi di risultato diventeranno totalmente variabili (in base alla produttività).

Perché votare no

Il 26 novembre su “Il Sole 24 ore” si leggeva: “Contratto metalmeccanici: 92 euro fra welfare e busta paga”. Landini, Bentivoglio e Palombella confermavano questo aumento fantasma.

È una cifra inventata

A tutti i lavoratori verrà riconosciuta l’inflazione con gli aumenti nel contratto nazionale. Verrà calcolata dopo che a maggio sarà stato reso noto dall’ ISTAT il valore dell’ IPCA ( indice dei prezzi a livello europeo).

Si stima per il 2016 un’inflazione dello 0,5% (pari a 9 euro) che si prevede arriverà all’ 1% nel 2017 e all’1,2% nel 2018. Se fossero confermati, si arriverà a un aumento di circa 51 Euro (fra tre anni) in busta paga. L’unica cosa sicura sono 9 Euro (al 5° livello), il resto non si sa. Si tratterebbe sempre di un adeguamento all’inflazione, per cui il potere di acquisto del salario rimarrà uguale.

A decorrere dal 1 gennaio 2017, gli aumenti dei minimi tabellari riconosciuti dopo questa data, assorbiranno gli aumenti individuali, nonché gli aumenti fissi collettivi, concordati in sede aziendale, salvo che siano stati concessi con clausola di non assorbibilità. In pratica, se per qualsiasi motivo la paga aumenta questo adeguamento all’inflazione non ci sarà.

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Storie di occupazione: Orsi Mangelli 1977

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di Volodia

Storie di occupazione – Orsi Mangelli 1977

Nel 1926 venne aperta dal conte Paolo Orsi Mangelli una fabbrica per la produzione di seta artificiale dalla viscosa che raggiunse ben presto una forza lavoro di circa 1500 operai. Ad essa venne affiancato nel 1929 un impianto per la produzione di cellophan (SIDAC), con un’occupazione di 650 persone. La nuova società riuscì a superare indenne la crisi del ‘29, con qualche appoggio statale, e a sopravvivere alle difficoltà della guerra, che ne limitò molto la produzione per carenza di materia prima. Nel dopoguerra l’attività produttiva riprende rapidamente, grazie anche al fatto che gli impianti erano sfuggiti ai gravi danni provocati dai bombardamenti e dalle rappresaglie delle truppe tedesche in ritirata, grazie anche alla determinazione con la quale la direzione e le maestranze avevano vigilato sui macchinari. Negli anni ’70 la pesante crisi del mercato nazionale ed estero del settore del rayon e del cellophane fa registrare all’impresa un andamento fortemente negativo. Alla fine del 1972 si arrivò alla cessazione della produzione del rayon, con conseguente chiusura di questo reparto.La produzione industriale dell’area termina nel 1984 per quanto riguarda il cellophane e nel 1993 per quanto riguarda il nylon.

Dal PRU Ex Orsi Mangelli, in cui si legge anche:

“La precedente destinazione industriale dell’area ha gravato molto sulle dinamiche del processo di riqualificazione. […]I n particolare, la trasformazione dell’area destinata a parco urbano […] si trova oggi in forte ritardo a causa della gravità ed estensione dei livelli di contaminazione (da amianto ed eternit, ma quest è un’altra storia, NdA).

Com’era la situazione del’Orsi Mangelli prima dell’occupazione?

Negli anni settanta quando io sono stato assunto, io sono stato assunto nel 1970, c’era ancora la “fabbrica vecchia”, che era il rayon, poi c’era la Sidac che faceva cellophane e c’era il Forlion che faceva filati, per calze e altre cose. C’erano oltre 2000 operai, nel 1970.

Da un lato c’erano tutti i servizi di appoggio alla vera e propria famiglia operaia, con asilo nido, mensa, bar con sala di lettura quotidiani, minimarket, sponsorizzavano la squadra di ciclismo, pesca sportiva, c’erano un sacco di iniziative paternalistico-assistenziale, chiaramente utili.

Dall’altro purtroppo l’utilizzo di sostanze tossiche e nocive dovuto alla produzione e le scarse conoscenze di allora sui sistemi di prevenzione danneggiavano la salute degli operai: da un lato la grande mamma che ti assiste in tutto, dall’altro turni notturni, l’utilizzo di sostanze nocive, il rumore, gli odori sgradevoli.

Nel 1972 l’azienda annuncia la chiusura della fabbrica vecchia, quella dedicata alla produzione del rayon, con circa 830 licenziamenti. In seguito sono partite varie forme di lotta.

Nel 1976 si prospetta il fallimento dell’azienda. Attraverso un’operazione un po’ ambigua subentrò un finanziere semisconosciuto, di nome Porcinari, che appoggiato anche dai politici del tempo, ha preso in mano la situazione agendo come un avventuriero… Non ha mai pagato le maestranze. Siamo andati avanti con un po’ di finanziamenti agevolati dalle banche e altre forme… siamo arrivati al punto che i dipendenti dovevano avere nove mesi di paga più tutte le liquidazioni. In questa fase ci sono state le lotte più aspre nei confronti delle banche che non erogavano più finanziamenti per continuare a lavorare, e poi perché non si vedevano sbocchi. Quindi si è deciso di occupare.

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MARALDI: SCELTE E TEMPISMO

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La storia insegna ma non ha scolari diceva Gramsci. Eppure di lezioni il nostro territorio è pieno. CISA, OMSA, ALPI, CROCI sono solo alcune delle realtà di lavoro in cui il copione si ripete sempre uguale. Il padrone minaccia la chiusura, i lavoratori lottano (con più o meno decisione), arriva il burocrate sindacale che da una parte tranquillizza i lavoratori, in alcuni casi li dissuade persino dal lottare, e dall’altra si accorda in nefasti tavoli istituzionali con la proprietà, che riceve una pioggia di soldi pubblici sotto forma di ammortizzatori sociali e incentivi. E i lavoratori? A casa. E la produzione? Finita o in esaurimento.

La situazione alla Maraldi è ancora peggiore. La crisi non si può evitare, la proprietà parla di investitori fantasma e le burocrazie sindacali le reggono il gioco. Ma la chiusura si delinea chiara all’orizzonte.

A differenza di altre realtà, esaurite le commesse, i lavoratori forse riusciranno a vedere gli stipendi arretrati, sempre che non superino i tre mesi, dopo i quali non sono più coperti dal Fondo di Garanzia. Continua a leggere