Sfratti in aumento così come le case sfitte: invertiamo la tendenza
Ogni grande città ha uno o più “quartieri brutti”, nei quali si ammassa la classe operaia. È vero che spesso la miseria abita in vicoletti nascosti dietro i palazzi dei ricchi; ma in generale le è stata assegnata una zona parte, nella quale essa, bandita dalla vista delle classi più fortunate, deve campare la vita per conto suo, comunque vada.
Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845
E donde proviene la penuria di abitazioni? Come si è originata? […] Essa è un prodotto necessario della forma di società borghese; che non può sussistere, senza la penuria di abitazioni, una società in cui la gran massa lavoratrice non ha nessuna altra risorsa che il salario del suo lavoro, da cui trarre tutti i mezzi necessari alla sua esistenza e alla sua riproduzione; in cui i perfezionamenti a getto continuo dei macchinari ecc. gettano nella disoccupazione masse di lavoratori; in cui violente fluttuazioni industriali a ritmo regolare provocano da una parte l’esistenza d’una numerosa riserva di lavoratori disoccupati, dall’altra gettano temporaneamente sul lastrico la gran massa di operai senza lavoro; in cui i lavoratori sono ammassati e pigiati nelle grandi città, e ad un ritmo più rapido di quello a cui, nelle attuali condizioni, possono costruirsi le abitazioni per loro; una società in cui, dunque, si deve trovar denaro anche per pagare la pigione anche dei cortili più abietti; in cui, per finire, nella sua qualità di capitalista, il padrone di casa non ha solo il diritto, bensì, grazie alla concorrenza, anche in un certo qual modo il dovere, di ricavare spietatamente dalla sua proprietà i fitti più alti. In una società del genere la penuria di abitazioni non è un caso, è un’istituzione necessaria, può essere abolita, insieme a tutti gli effetti che sortisce sull’igiene e via dicendo, solo se viene sovvertita dalle fondamenta l’intera società da cui scaturisce.
La Questione delle Abitazioni Friedrich Engels (1872)
Avere una casa è un bisogno così fondamentale che diventa difficile e paradossale persino rivendicarne la centralità. Senza casa non ci si scalda, non si cucina, non ci si riposa, non si crescono i figli. Senza casa non si può lavorare. Senza lavoro non si può mantenere una casa. E questo la classe padronale lo sa. Sono le banche, il clero, i grandi proprietari, la classe degli sfruttatori ad avere in mano milioni, letteralmente (7 l’anno scorso) di case sfitte che preferiscono veder marcire per non abbassare il prezzo degli affitti.
La costante ricerca di un lavoro per avere un tetto fornisce alla grande massa degli sfruttati la necessaria “motivazione” per accettare qualsiasi ricatto padronale. Gli sfratti sono in aumento, eppure il 90% di essi avviene per morosità incolpevole. Chi sono questi “debitori incolpevoli” che non riescono a pagare gli affitti innaturalmente elevati dei tuguri che abitano alle periferie delle grandi città? Sono famiglie, spesso donne con figli, migranti, singoli o gruppi di persone che a volte un lavoro ce l’hanno, ma il cui salario non è più sufficiente da garantirle loro un tetto.
La rivendicazione del diritto alla casa è imprescindibile, non solo per le donne, ma per qualsiasi essere umano; tuttavia il soddisfacimento di questo bisogno primario non deve basarsi su una pelosa carità cristiana, ma va rivendicato e ottenuto con una lotta che affonda le sue radici nell’eliminazione totale di qualsiasi forma di sfruttamento. Il padrone non solo ci toglie il tempo, ci obbliga a passarlo a produrre plusvalore per lui, ma ci sottrae persino il diritto a un tetto, per renderci più malleabili, pronti al compromesso, dediti al lavoro. Tutto ciò avviene nella speculazione edilizia più vergognosa, mentre si detassano le abitazioni di lusso e si esonera il Vaticano dal pagamento delle imposte.
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